"La morte arriva veloce, alle spalle. Non ti avverte. E come un calcio veloce e potente, non la si può fermare. E in genere la morte soffia il proprio vento così. Bisogna vivere sapendo questo. Sapendo che da un momento all'altro si potrebbe morire. Bisogna quindi fare ogni cosa consapevoli di non avere l'opportunità di poterla ripetere"

 
 


Il maestro sedette sul tatami incrociando le gambe. Guardò lontano, oltre l'unico allievo seduto di fronte a lui e con sguardo assente cominciò a parlare. “Ricordati: ogni cosa che farai, anche la più insignificante, se la farai come fosse per l'ultima volta, sapendo che non potrai rifarla perché non ne avrai né il tempo, né la possibilità, sarà una cosa fatta bene, con amore e con passione. In caso contrario ogni tuo gesto, ogni tua azione, sarà soltanto quello che è, niente di più. Non sarai mai arricchito dalle esperienze, dai sentimenti. Vivrai i tuoi giorni senza mai conoscere te stesso. Tu e la tua anima vivrete parallelamente, senza incontrarvi, non riuscirete mai a comunicare".
Il ragazzo ascoltava con la bocca socchiusa nel silenzio della enorme palestra. La voce del maestro, benché avesse solamente sussurrato, rimbombò rendendo ancora più significative le sue parole.
“Ma come posso maestro", chiese il ragazzo stringendosi il nodo della cintura, "sapere se ciò che faccio è giusto; cioè: come potrò capire se ogni cosa che farò la sentirò veramente come se la stessi facendo per l'ultima volta. Io non so cosa si prova a fare qualcosa che poi non si potrà più ripetere.
Vorrebbe dire... essere morti".
Il maestro chiuse gli occhi e distese i palmi sulle cosce, spostò leggermente le ginocchia e ancorò comodamente i piedi sotto il suo corpo.
"Anche in quel caso, voglio dire, se tu fossi morto, non avresti potuto sapere che la cosa che stavi facendo fosse veramente l'ultima. La morte arriva veloce, alle spalle. Non ti avverte. E come un mae geri chudan, se ò veloce e potente non si può fermare. E in genere la morte soffia il proprio vento veloce e potente. Basta che vivi sapendo questo. Sapendo che da un momento all'altro potresti morire e quindi tutto ciò che farai sarà vissuto pienamente e con grande volontà. Niente più ti sembrerà scontato, inutile. Un sorriso, un regalo, un nuovo amico. Tutto ti farà un immenso piacere e potrai gustarti in pieno l'essenza della vita".
"Ma così avrò invece una vita triste", riprese il ragazzo continuando a guardare gli occhi chiusi del maestro, "se penserò di morire ogni momento, come potrò essere allegro, con un'idea così pesante nei pensieri. Come farò a sorridere e a essere spensierato, innamorato, se a ogni istante dovrò rendermi conto della mia mortalità. Scusate maestro se metto in dubbio le vostre parole, so che voi siete saggio ma io voglio capire, rendermi conto. Io credo che quando un uomo accetta la sua mortalità in qualche modo sia già morto".
Il maestro aprì gli occhi e fissò quelli del suo allievo, spalancati e profondi. Dopo una breve pausa rispose al ragazzo continuando a guardarlo. "Sono contento di poter parlare con te Al ed è vero quello che hai detto. Ma proprio perché un uomo è arrivato a capire la sua mortalità, è più vivo che mai. Può vivere i suoi istanti, le sue emozioni, con una maturità superiore a ogni altro individuo, che invece non è ancora in grado di capire. In altre parole quell'uomo vive naturalmente tutte le sue azioni, come se fosse per l'ultima volta. Automaticamente. Non deve continuare a ripeterselo perché ha raggiunto uno stadio in cui quella realtà è presente in ogni suo gesto, in ogni suo movimento, e non per questo è triste o depresso. Anzi, al contrario, è invogliato a fare più cose, ad amare di più, finché ne avrà tempo e possibilità".
Il ragazzo si alzò. "Voi allora non mi considerate ancora maturo. Cioè io, secondo voi, non ho ancora quella sorta di "automatismo" che guida le menti consapevoli di questa verità", disse tutto d'un fiato con tono blandamente risentito e offeso.
"Perché ti sei alzato Al?", chiese il suo Sensei.
"Scusate maestro, è stato l'istinto", rispose Al rimettendosi a sedere sui talloni. "Che cosa hai provato nel farlo?", chiese il maestro.
"Ad alzarmi o ad ascoltarvi, maestro?".
"Tutte e due le cose".
"Ad ascoltarvi ho provato una grande gioia, come se dentro di me si fossero accese delle luci nascoste, che non sapevo neanche di possedere. Ad alzarmi invece mi ha spinto un senso di collera", rispose l'allievo guardando a terra. "Ti sbagli Al, io ti reputo maturo. Adesso", disse il maestro chiudendo ancora gli occhi.
"Quindi vuol dire che prima per voi non lo ero e che adesso lo sono diventato?", chiese titubante il ragazzo.
"Esattamente", rispose il maestro. "Esattamente”.
"È grazie alle luci che si sono accese dentro di me che pensate io sia diventato maturo?", chiese con impeto e curiosità. "Anche per quello, ma non solo. Non è per una frase azzeccata e ad effetto che un uomo può considerare maturo un suo simile. Sei un buon allievo, il migliore. Sei forte e apprendi presto. Sei modesto e sincero. Io credo nelle tue possibilità fisiche. Voglio credere anche nelle tue possibilità mentali, altrimenti il tuo potenziale sarebbe ridotto a meno del cinquanta per cento. Un buon colpo è tale se possiede potenza, forza e velocità. Per la forza e la velocità basta il tuo fisico forte e atletico. Per la potenza ci vuole sicurezza in te stesso, quindi una serena maturità e una notevole consapevolezza; ti ho osservato, e credo che tu sia pronto ad affrontare e ad apprendere i segreti che ti svelerò. Ora ne sono più che mai convinto".
"Grazie maestro. ma ditemi, perché io?", chiese il ragazzo con un'espressione contenta in viso.
"Perché se il migliore fra tutti gli allievi", rispose il maestro.
"È davvero importante essere il migliore?", chiese ancora il giovane.
"A questa domanda non so e non posso risponderti. Qualsiasi risposta sarebbe presuntuosa. Ma credo che tu potrai scoprirlo da solo. Nel tempo", rispose alzandosi il maestro. Anche il ragazzo si alzò. Il Dojo immenso era scarsamente illuminato dai numerosi tubi al neon appesi all'altissimo soffitto. I due a distanza ravvicinata e immobili uno di fronte all'altro, unirono contemporaneamente i talloni e, con le braccia distese lungo il corpo, chinarono il capo in segno di saluto.
"Os, maestro". "Os, Al".


 

CONTINUA...

 

 
     

 

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